Mario Mistretta
Il centenario della Cassa Nazionale del Notariato costituisce l’occasione per una pluralità di riflessioni su di una professione, il Notariato, e il suo essere nella società di oggi. Rappresenta l’opportunità di osservarlo nell’età dell’ incertezza, nell’età della iperconnessione, nell’età dei dati che si fanno diritti. Uno sguardo che parte dal passato diventa contemporaneamente uno sguardo verso il futuro. I pensieri veloci del mondo dei social devono far posto ai pensieri lenti che consentono di guardare lontano. Il racconto del nostro passato, i cento anni di storia e la testimonianza del nostro vissuto professionale illuminano di valori il nostro presente. Allontanano il potenziale deserto etico della Lichtung, della “radura dell’essere” nella prospettiva del nichilismo interiore di Heidegger. La storia dà la forza di leggere il futuro in percorsi di verità e di realtà. La storia diventa una forma essenziale di conoscenza del nostro tempo, così da comprendere processi segmentati e non lineari, movimenti complessi e imprevisti. La storia permette di individuare quello che non cambia sotto le grandi e piccole trasformazioni. Il presente, dalla percezione agostiniana di “attimo che grida a gran voce di non avere durata”, si fa sintesi consapevole dei processi vicini e lontani. La memoria di tante esperienze, di tanti saperi, di tante emozioni di uomini e donne, ai quali è accaduto di essere Notai, è descritta nel sintagma “Cassa Nazionale del Notariato”. Quella memoria dà conto di vicende passate che si fanno per noi presente. Consentono la conoscenza del mondo di oggi che corre inesorabilmente verso il futuro. Marc Augè ha detto: “Il futuro è il tempo di una coniugazione, il tempo più concreto della coniugazione, se è vero che il presente è inafferrabile, sempre travolto dal tempo che passa, e il passato sempre oltrepassato, irrimediabilmente compiuto o dimenticato. Il futuro è la via che si vive individualmente” per conoscere insieme il mondo. Le stratificazioni di memoria registrate, che il nostro centenario ci consegna, ci portano a descrivere la contemporaneità, ormai orfana sia della modernità sia della postmodernità, con l’utilizzo di tre participi: connessa, bloccata insieme, annodata. Tre participi che descrivono un itinerario tra vari presenti. Da una realtà di crescenti collegamenti reciproci e delle relative potenzialità, ma sottoposti al semaforo dell’ “in” o dell’ “out” delle nostre scelte consapevoli, si è passati alle connessioni automatiche e ai loro intrecci. Cento anni danno dimostrazione e testimonianza dell’avverarsi della profezia di Leo Strauss che, nei primi anni 50, ha sostenuto come ci siano sempre stati e sempre ci saranno mutamenti improvvisi e inaspettati della concezione del mondo, che mutano il senso di tutte le conoscenze possedute in precedenza. Non vi è infatti una concezione totalizzante, la quale possa accreditarsi di essere immodificabile in una validazione universale.***Non possiamo dimenticare che la nostra modernità nasce dal dubbio cartesiano sulla verità e dalla sua metodologia. Risuona ancora oggi, in noi e per noi, l’eco della domanda scettica di Pilato a Gesù: “quid est veritas?” (Giovanni 18,38). Il desiderio di trovare il vero si è scontrato e si scontra con la tragicità della storia degli ultimi cento anni. Da una idea di verità sbagliata, manifestata dal potere politico, sono derivate violenza e intolleranza. I nostri cento anni hanno visto salire al potere Mussolini, Hitler, Stalin e l’affermarsi di idee verità che hanno portato ai genocidi, con flebile resistenza da parte della metodologia del dubbio. Mi piace ricordare che nello stesso anno, in cui Hitler conquista il potere in Germania (1933), un giovane pastore protestante Dietrich Bonhoeffer, ventisettenne docente di teologia all’università di Berlino, contestò apertamente la politica razzista del governo tedesco, sul problema ebraico, e l’atteggiamento di parte della Chiesa protestante Tedesca, che voleva escludere dalla stessa i cristiani di origine ebraica. Risultato di quella protesta fu che nel 1936 gli vietarono l’insegnamento universitario, nel 1940 gli vietarono di parlare in pubblico, nell’aprile del 1943 la Ghestapo lo arrestò. La mattina del 9 aprile 1945 fu impiccato. Questo non impedì al grande teologo tedesco di scrivere, un saggio dal titolo Che cosa significa dire la verità?. Bonhoeffer parla ancora oggi alla nostra inquietudine di come essere nel mondo. È oggi il tempo nel quale la nostra autenticità, la verità di noi, è giocata in una realtà dove le nostre scelte raccontano di pensieri e opere suggeriti da n algoritmi ai nostri smartphone geolocalizzati. Sorprendentemente ci soccorre Bonhoeffer con un suo lontano racconto sulla verità contenuto in quel saggio[1]. Un professore chiede a un ragazzo, dinanzi a tutta la classe, se è vero che suo padre a volte torni a casa ubriaco. La circostanza è esatta, ma il ragazzo la nega. Alla domanda del Professore risponde con una menzogna, ma contemporaneamente esprime una verità più profonda: la famiglia è un’istituzione sui generis nella quale il professore non ha diritto di intromettersi. La risposta del ragazzo è formalmente una bugia, ma sostanzialmente contiene la verità di tutelare il suo diritto alla riservatezza. La sua risposta è più conforme alla verità che non avere ammesso davanti a tutta la classe la debolezza paterna. Ma la vicenda non finisce così. In quella classe vi sono due ragazzi che abitano vicino all’interrogato e conoscono la realtà dei fatti. Il primo dei due interviene e dichiara che il padre dell’interrogato è spesso ubriaco. Il secondo invece dice che il primo si confonde con un’altra persona. Chi fra questi due ragazzi vince il premio della verità? Bonhoeffer ci dà una risposta spiazzante. Non è il primo, il quale incarna l’atteggiamento di “colui che pretende di dire la verità dappertutto in ogni momento a chiunque... (ma) è un cinico che esibisce soltanto un morto simulacro della verità”. Il premio lo vince il secondo. Il suo intervento, apparentemente falso, dà della verità un valore relazionale: la colloca all’interno di un dialogo che sorregge la qualità dei rapporti tra esseri e contestualizza i fatti in una prospettiva dinamica. La tutela della dignità del ragazzo è una verità profonda[2]. Nel mondo Ebraico il termine verità viene indicata con la parola “emet”, la cui radice deriva dal verbo “aman” che significa essere solido, essere l’appoggio che non viene meno. Ricordo che il motto contenuto nel logo del Consiglio Nazionale del Notariato è “fidei et veritatis anchora”. Verità e Notariato sono uniti nel descrivere il segmento di realtà che ci coinvolge. Dove l’essere di noi Notai nel mondo, come uomini e donne che portano le regole dello Stato nelle dinamiche degli interessi contrattuali, ci fa vicini alla complessità della verità profonda: gli egoismi si fanno comune riconoscimento di un equilibrio, dai Notai garantito, che accresce la qualità e il valore degli interessi originali. La verità dell’equilibrio raggiunto diviene essa stessa nuovo valore riconoscibile sia dal punto di vista esistenziale sia dal punto di vista economico. I cento anni della Cassa raccontano di centinaia di milioni di operazioni nelle quali quell’equilibrio e quella verità si sono cercati e si sono raggiunti. Raccontano di una capacità a saper leggere gli interessi della vita e a intermediarli con le regole del diritto. Questo sguardo, che proviene da lontano (dai cento anni), dà conto di innumerevoli testimonianze di un diritto pronto a registrare, nei suoi strati profondi, quei valori che costruiscono, come dice Paolo Grossi[3], l’esperienza giuridica, pur nel mutamento, con parole di solidità, resistenza e quindi di verità. L’età della Mobile Economy, l’età dello smartphone ci fanno consapevoli di vivere una evoluzione epocale, come quelle create dalla nascita della stampa, dalla macchina a vapore, dal motore a scoppio e dai computer. Questo impone problemi potenzialmente ardui a chi vuole tutelare diritti e soggetti nelle immense periferie digitali.***Nel nostro tempo l’aporia più rilevante è quella data da miliardi di informazioni disponibili per noi e dalla contemporanea afasia sulle domande di senso sulla vita. La quantità di informazioni, da cui siamo bombardati, invece di darci più sapere e più consapevolezza rende rarefatte quelle domande. L’iperinformazione debole ci fa distanti da un riconoscimento di noi. Lo strumento del diritto appare affaticato, in ritardo nel riconoscere e valutare l’esplosione di processi socio- economici nelle piattaforme digitali. Domina l’asimmetria a favore delle procedure informatiche e versus le regole giuridiche. Viene confutato il paradosso di Achille e della tartaruga: il veloce mondo digitale (Achille) raggiunge la tartaruga (le regole giuridiche) e l’acutezza di Zenone viene sconfitta dalla capacità iperveloce della gestione di un incommisurabile numero dei dati. Sono la connessione rapida istantanea e contemporanea tra miliardi di soggetti, l’utilizzo di milioni di applicazioni, l’uso di n algoritmi tra loro intrecciati (intelligenza artificiale) a trasformare n miliardi di dati in valori economici, oggetto di transazioni. Assistiamo, così, a procedure di estrazione da tante miniere digitali, che ogni giorno vengono scoperte nel mondo di internet. Nulla di tutto ciò avviene in un mercato di informazioni perfette, in una simmetria di conoscenza e consapevolezza da parte di tutti i potenziali attori e spettatori. Il fenomeno del capitalismo digitale tende ad assumere i contorni del monopolio ed a incrementare radicali differenze nella allocazione della ricchezza.
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La disintermediazione nei contratti, conclusi da procedure algoritmiche, colloca l’intervento delle volontà negoziali in un remoto logico e temporale, probabilmente nella volontà dei creatori delle procedure non in quella degli utilizzatori delle applicazioni. Tutto questo non è avvenuto all’improvviso. I cento anni di storia ci aiutano a ricostruire i meccanismi e la cultura giuridica che hanno permesso al capitalismo di essere il fenomeno globalizzato di oggi. Gli innumerevoli eventi, che sono descritti dall’espressione “età della digitalizzazione”, e la loro relazione con le regole giuridiche possono essere compresi solo se si presta attenzione non solo ai rapidi accadimenti, avvenuti in un tempo breve, ma anche alle tendenze che hanno avuto inizio in epoche lontane. Un rapido riferimento alla storia dello strumento classico dell’economia capitalistica, la società per azioni, ci aiuta in questa assunzione di consapevolezza. Le due società di questo tipo, che hanno rappresentato il primo clamoroso successo operativo di soggetti di diritto distinti dalle persone fisiche nell’esercizio di attività commerciali, sono state fondate nel 1600, a due anni di distanza una dell’altra. Si sono ispirate a due principi organizzativi diversi, uno democratico e l’altro oligarchico. La prima, inglese, fu la Compagnia delle Indie, fondata a Londra proprio nel 1600 e retta da principi democratici. Quella costituzione formalizzò in un meccanismo giuridico i finanziamenti dei viaggi di navi inglesi da e per le Indie. I finanziatori facevano proprio il rischio del viaggio, anticipando tutte le spese, e in cambio ricevevano un numero di azioni. Al ritorno a Londra delle navi le merci trasportate venivano vendute all’asta e i guadagni divisi fra gli azionisti. Il fenomeno fu rivoluzionario. Si allentò la relazione diretta tra soggetto e bene, la relazione divenne indiretta e mediata da un bene di secondo grado, l’azione. La gestione dell’operazione veniva affidata dagli azionisti a un numero ristretto di soggetti, gli amministratori: quest’ultimi, attraverso un sistema di regole organizzative, si interessavano della manutenzione delle navi, della individuazione delle rotte, della acquisizione dei beni in India e dell’organizzazione delle aste in Inghilterra. Gli amministratori rispondevano agli azionisti che potevano controllare l’opera dei primi. La riduzione della proprietà, da bene diretto a bene indiretto, era controbilanciata dal controllo democratico della gestione, sancito e difeso dallo statuto societario. Così accade che, nel 1624 la richiesta di Re Giacomo I di far parte della società venne cortesemente respinta con la motivazione che la posizione del Re avrebbe potuto condizionare la gestione dell’impresa collettiva. La seconda società fu costituita nel 1602 in Olanda e divenne la Compagnia delle Indie Olandesi. La società nacque dall’alto, da una autorizzazione dello Stato. Gli amministratori, nominati dall’autorità politica, avevano un potere gestorio assoluto. Non era previsto alcun obbligo di rendicontazione agli azionisti. Il tutto era retto da regole di tipo oligarchico. In queste due società esisteva sostanzialmente un solo interesse, quello di incassare dividendi.
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Il fenomeno del commercio internazionale è rimasto governato unicamente dalle regole organizzative da società di capitali fin quando, con la rivoluzione industriale, la necessità di cospicui finanziamenti ha fatto entrare nello scenario economico un nuovo soggetto e i suoi interessi, il sistema bancario. L’entrata del capitalismo finanziario ha comportato il superamento dell’alternativa tra organizzazione democratica, secondo il modello della Compagnia delle Indie Inglese, e organizzazione autocratica della Compagnia Olandese, con il prevalere di un terzo strumento di governo, un nuovo itinerario, quello del contrattualismo. È così accaduto che nel capitalismo finanziario maturo, con innumerevoli teorizzazioni nella letteratura economica e giuridica nordamericana, le società per azioni sono state qualificate come un fascio di contratti (nexus of contracts). Le relazioni tra manager e azionisti, tra società e risparmiatori, tra società e banche sono state declinate unicamente con regole contrattuali. L’attuale presente delle dinamiche economiche dà conto di un’ampio dominio da parte del neo contrattualismo digitale. L’attenuazione della distinzione tra imprese e consumatori (con potenziale superamento tra chi riceve le cose e chi fa le cose), ha trovato contemporaneamente riscontro in un vastissimo e capillare bargaining cioè nel fenomeno di una contrattazione continua[4]. Lo sviluppo enorme dei processi informatici ha accentuato le tecniche di dematerializzazione dei diritti. L’economia si è affrancata dall’antico dominio della politica e della sovranità degli stati. Ha creato forme di globalismo giuridico, con la nascita di principi e schemi contrattuali completamente nuovi, sconosciuti allo sguardo normativista dei codici e delle leggi: sempre più economia e regole autocostruite, sempre meno Stato. Nell’età del superamento del postmoderno si conferma la prevalenza, sotto il profilo giuridico, dell’effettività creativa dello spontaneismo economico, rispetto alla validità conformata a modelli generali, autoritariamente imposti dalla legge[5]. Nell’età del dominio digitale sta accadendo altro. L’alternativa tra giudizi di validità e giudizi di effettività viene radicalmente superata dalla tendenza da parte dei processi decisionali algoritmici in un’area giuridica: la soluzione dei potenziali conflitti tra procedimenti digitali, portatori di interessi contrapposti, viene a posizionarsi all’interno delle stesse procedure automatiche di scelta e nelle loro reciproche relazioni di auto apprendimento.
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La realtà dei smartcontracts non nasce improvvisamente. Si inserisce in un percorso antico. Affonda le sue origini nel contrattualismo del capitalismo finanziario che ha riscoperto il rapporto bilaterale, senza intermediazioni tra i soggetti del diritto e i beni, all’interno del filone culturale del “lasciar fare”. Il contrattualismo moderno ha sempre presupposto interventi degli Stati il più possibile limitati. Tutto questo presenta pericoli, nella tutela delle posizioni deboli, a causa della asimmetria di informazioni che coinvolge ognuno di noi nel momento nel quale si voglia esercitare la libera razionalità nelle scelte. Pericolo accresciuto dalla esponenziale potenza predittiva degli algoritmi dei Big Date. La massimizzazione dell’interesse proprio di ogni agente, che ha dominato la letteratura economica contemporanea nella descrizione di un mercato in potenziale perfetto equilibrio paretiano[6], ora deve fare i conti con una realtà nella quale il raggiungimento di obbiettivi socio-economici voluti è fortemente condizionata da quella asimmetria di libertà, che colloca la razionalità e la coerenza delle scelte in luoghi distanti dalla volontà di ognuno di noi. Hannah Arendt ci ha ammonito che “spesso un’epoca imprime in maniera più marcata il suo sigillo su chi ne è stato meno improntato essendone più lontano, dovendo perciò soffrirne di più.”[7]. Nel contempo il suo grande amico Walter Benjamin ci ha rammentato che “la storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non forma il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di adesso”[8]. Questi pensieri profetici interrogano i cento anni di storia dei Notai, interrogano il nostro presente e la nostra capacità di costruire futuro. Nell’età delle diseguaglianze digitali e delle diseguaglianze sociali vi sono enormi potenzialità per tre parole, che vengono da lontano e che possono andare lontano, capaci di descrivere il passato di noi Notai e illuminare le nostre strade future: competenza, indipendenza e lealtà. La competenza necessaria da parte dei Notai, per rispondere con regole efficaci alle potenziali domande di tutela dell’oggi, non è solamente quella di un giurista tecnicamente preparato a dare forma giuridica adeguata alla volontà negoziale delle parti, all’organizzazione dell’impresa, agli assetti familiari e successori. Occorre qualcosa di più: essere tutti noi Notai i nodi intelligenti e sensibili, ai quali affidare la certezza e il valore anche di entità positive esistenti nella realtà digitale. La forza delle tecnologie e delle procedure digitali, il geometrico incremento della capacità di trasmissione di dati e di calcolo, secondo la legge di Moore[9], impongono la presenza di presidi di tutela per i diritti e per i valori in gioco, presidi nei quali i Notai possono avere un ruolo non marginale. Le parole indipendenza e lealtà, che costituiscono la cifra identitaria di cento anni di presenza del Notariato nella società, sono qualità antiche e contemporaneamente estremamente moderne. Danno sostanza a quei nodi di interconnessione ,dove registrare le informazioni che si fanno valore e il cui valore deve permanere nel tempo. Competenza, indipendenza e lealtà costituiscono le virtù professionali con le quali gestire interessi contrapposti e impedire conflitti di interesse. Occorre, quindi, un di più che aiuti ad individuare e tutelare tutte quelle posizioni deboli, che la negoziazione di diritti e di obblighi presenta nell’economia di mercato iperdigitalizzata. Le nuove tecnologie multiuso hanno reso la comunicazione di massa economica e abbondante. Le forze connettive hanno intrecciato la nostra società. Tutto questo ha influito sulla diffusione delle idee, il cui volume, la cui varietà e ricchezza si sono obbiettivamente incrementate. Noi viviamo in un flusso continuo di informazioni che possono rimanere solo un rumore di fondo incomprensibile, oppure possono diventare lo stimolo per accrescere qualitativamente il nostro essere individuale e complessivo. Il di più di competenza per noi è quella di avere l’attitudine a comprendere quelle gigantesche linee di forza, che muovono la società dell’informazione diffusa. I nodi di garanzia, nella società liquida, si costruiscono dal basso. Ma perché siano trasparenti e indipendenti occorrono coesioni qualitative: la storia di noi Notai evidenzia l’esistenza, nelle nostre correlazioni, di questa circostanza. Le coesioni qualitativamente efficienti consentono di realizzare un sistema di nodi retti da competenza, indipendenza e trasparenza. Tutto ciò ha bisogno di impegno e di scelte. Occorre mettersi in viaggio e affrontare la complessità della contemporaneità con coraggio. Per essere nel futuro e portare in dono gli esiti positivi, del nostro essere Notai nella storia, occorre la consapevolezza dei segni dei tempi.
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Il senso del nostro centenario è quello di confermarci nella vocazione ad essere le regole dello Stato che si fanno vita vissuta tra sentimenti, desideri, aspirazioni, diritti e obblighi dei nostri concittadini. Il coraggio delle scelte deve essere conquistato ogni giorno e in ogni momento. Il viaggio presuppone non solo avere una meta, ma sapere anche da dove si proviene. Non occorre diventare altri e non occorre snaturarsi. Non occorre essere uomini e donne “inventati”. Non occorre essere novelli Mattia Pascal che recidono “di netto ogni memoria”. È sufficiente essere fedeli ai valori della nostra storia. Tutto ciò ci consente di capire dove dirigere nella contemporaneità il nostro percorso. Soren Kierkegaard ci suggerisce la necessità di scegliere per dare un senso al nostro essere nel mondo e così scrive nelle prime pagine di Aut aut [10]. “Immagina un capitano sulla sua nave nel momento in cui deve dar battaglia; forse egli potrà dire, bisogna fare questo o quello; ma se non è un capitano mediocre, nello stesso tempo si renderà conto che la nave, mentre egli non ha ancora deciso, avanza colla solita velocità, e che così è solo un istante quello in cui sia indifferente se egli faccia questo o quello. Così anche l’uomo, se dimentica di calcolare la velocità, alla fine giunge a un momento in cui non ha più libertà della scelta, ma perché non l’ha fatto”. Tutto questo è il nostro rischio: essere incapaci a scegliere e, quindi, incapaci a valorizzare il nostro passato come portatore di futuro. L’età dell’incertezza tende a costringere tutti noi a una faticosa autoformazione e autoaffermazione. Questo percorso sconta, a causa della complessità del tempo dell’informazione illimitata, una strisciante paura di inadeguatezza. L’apparente semplificazione della trasformazione dei dati analogici in dati digitali, attraverso l’assegnazione di semplicissimi valori numerici (stringhe di 0 e 1, chiamate bit ), non attenua quella inadeguatezza. Anzi la smaterializzazione dei contenuti, la capacità di comprimerli e di trasferirli istantaneamente accentuano i sentimenti di difficoltà. Assistiamo alla narrazione del mito della misteriosa palingenesi rivoluzionaria del mondo di internet. Ma ne abbiamo paura. Guardiamo al presente, al mondo iperdigitalizzato, con gli occhi rivolti al passato come l’Angelus Novus. Dice Walter Benjamin: “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Un angelo v’è raffigurato che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la sua bocca è aperta e dispiegate sono le sue ali. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Il viso è rivolto al passato. Laddove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, là egli vede un’unica catastrofe, che accumula incessantemente macerie su macerie e se le scaraventa ai suoi piedi”.[11] Ma il nostro angelo della storia non è quello di Benjamin, è quello che ci infonde il coraggio di guardare avanti con le nostre intelligenze e con i nostri valori, per noi e per il nostro paese: Anchora fidei et veritatis.
1 Dietrch Bonhoeffer, Che cosa significa dire la verità? (1942), in appendice a Etica, tr.it. di Aldo Comba, Milano, 1983, pp.310-311
2 Vito Mancuso, La vita autentica, Milano 2009, p.118, il quale ricorda come la “verità è qualcosa che si muove, esattamente come si muove la vita perché la verità è la vita buona, la vita autentica. Verità è un concetto integrale, che riguarda tutte le dimensioni umane...è in grado di contenere in sé anche il negativo, anche il falso e l’errore, ed è davvero universale”.
3 Paolo Grossi, Ritorno al diritto, Bari 2015 p.XI
4 Guido Rossi, Il gioco delle regole Milano, 2006, p.36
5 Paolo Grossi, Ritorno al diritto, op.cit,p.28, ha segnalato come“Nella modernità il diritto veniva sottoposto alle forche caudine della validità, un setaccio spietato perché esigeva che giuridicità fosse soprattutto corrispondenza a un modello generale e autoritario confezionato in alto, con la condanna alla irrilevanza della maggior parte della proliferazione fattuale. Il post moderno valorizza al contrario la effettività , con la disponibilità ad ampliare i confini della giuridicità fino a ricomprendervi tutti quei fatti che , muniti di forza interiore , sono capaci di incidere sulla realtà circostante”.
6 Amartya Sen, Razionalità e libertà Bologna, 2005, p.29
7 Hannah Arendt, Walter Benjamin, L’angelo della storia, testi, lettere, documenti, Firenze, 2017,p.82
8 Hannah Arendt, Walter Benjamin, L’angelo della storia, testi, lettere, documenti, op cit, p.145
9 Nel 1965, il cofondatore di Intel , Gordon Moore, osservò che il numero di transistor che la sua azienda poteva inserire all’interno di un chip per computer (e quindi la potenza di calcolo del chip)raddoppiava ogni due anni circa. La cosiddetta “legge di Moore”, nome con cui questa osservazione è diventata famosa, è tuttora valida.
10 Soren Kierkegaard aut aut, Milano,2016,p.10
11 Hannah Arent, Walter Benjamin, L’Angelo della storia, op. cit, p.137